domenica 24 giugno 2007

Un pezzo a piedi - Giovanna Nieddu


Un romanzo o un racconto è una costruzione artificiosa che un autore ha sviluppato con la sua fantasia, come una tela sulla quale trasferire il proprio pensiero. Farne una recensione significa guidare il lettore a filtrare i contenuti, attraverso la trama della tela. Nella poesia non c’è invece nessun artificio. Nella poesia l’autore è come in un confessionale senza grata, scrive proprio per mettere a nudo la sua anima. La poesia è tanto più riuscita, quanto più la parola ha perso ogni significazione per farsi suggestione ed emozione. La poesia non è una traduzione dei sentimenti in parole, perché il lettore possa risalire dalle parole ai sentimenti. La poesia diventa essa stessa sentimento e le parole si trasformano nel pentagramma che consente al lettore di far proprie le emozioni del poeta: musica senza parole.
Per questo è difficile, se non impossibile, recensire una raccolta di poesie. Non c’è nulla da recensire, perché non c’è traccia da svelare, sentiero su cui condurre il lettore. Il rapporto tra chi scrive e chi legge è immediato, direi quasi “a pelle”. Il poeta si mette a nudo, e nudo deve avvicinarsi il lettore, per sentire la vibrazione d’un anima che ha sentito il bisogno di rivelarsi, perché altri nel suo disvelarsi, trovi una traccia per ritrovarsi, per ritrovare il senso del proprio esistere.
Queste sono le considerazioni a cui sono stato portato leggendo la raccolta di poesie “Un pezzo a piedi” di Giovanna Nieddu, e su queste considerazioni, ovviamente, avrei dovuto fermarmi, rinunciare ad ogni commento.
Ma poi non ho potuto fare a meno di interpretare a mio modo, la “tela di vita” che affiora tra le “parole in bianco e nero” della Nieddu.
A partire dal titolo, ricavato da una delle poesie della raccolta e riferito alla battuta d’un extracomunitario (anche questi ormai nuovi cittadini della Carnia) che chiedendo il biglietto della corriera, per risparmiare, chiede soltanto una tratta, riservandosi di fare a piedi l’ultimo pezzo. Ma è il pezzo a piedi di mille storie della nostra emigrazione. Il pezzo a piedi che gli emigranti facevano scendendo dal paese per andare a “prendere la corriera di Tavoschi”, accompagnati dalla moglie che portava la valigia sulla gerla. E’ il pezzo a piedi che facevano rientrando con la valigia di cartone in spalla, ed il pensiero al paese che finalmente avrebbero rivisto. E’ il pezzo a piedi di Giovanna che emigra dalle montagne della Sardegna, per fare anche sua la mia Carnia. Emigrazione ed immigrazione come un vortice che può cancellare o rendere più vive le identità. Paura e speranza per i paesi di montagna.
Ma forse al di là delle intenzioni dell’autrice, in questo titolo, io ci ho letto la metafora del pezzo a piedi di ognuno di noi nella vita, come lei dice, “contando i passi che ci separano dal cielo”.
“Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te”. Potrebbero essere queste parole di S.Agostino la chiave di lettura più profonda dei versi di Giovanna. L’inquietudine del finito alla ricerca d’un senso che può essere ritrovato solo in un Infinito irraggiungibile, in una vita che è “l’eterno respiro d’eterno”. Una inquietudine che costa sofferenza, che pesa perché si “paga caro il prezzo della consapevolezza”.
Ma accanto alla chiave di lettura esistenziale c’è quella di Giovanna che ha scoperto la Carnia, meglio di tanti carnici, perché ha scoperto la suggestione dei luoghi. “Vado per le montagne.. e il silenzio umido del sottobosco canta il canto della mia montagna. In Marcelie, (nei luoghi della mia infanzia, ai quali mi lega una “particolare attrazione” come scrivo in un mio romanzo) è arrivata lei dalla Sardegna, ed è riuscita a dar voce alla mia suggestione. “Cammino piano/ lascio che la vita/ mi scorra dentro all’anima/ prego/ lo spirito mio di riposarsi/ in Marcelie”
Infine nei versi che mi sono più piaciuti di “Cantami un lied” Giovanna che pure non è nata su queste montagne di Carnia, e riuscita a farle parlare. Ne ha sentito la voce nelle “note lontane di un canto mattutino”. Si è sentita vivere con il vivere della natura, ha dato voce ancora alle Agane, che erano acqua ed erano fate, spirito e natura assieme. Le Agane metafora di un vivere nella natura e con la natura, che cantavano come Giovanna “Portami da lontano/ le note di un canto mattutino/ il canto del risveglio/ abbracciata alla paglia”


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